Storie di Lotta Continua: i versi di Fortini e il trauma di Sofri di Attilio Mangano

 

Nell’annunziare la prossima uscita di un libro di Cesare Bermani (Non più servi, non più signori, Elleu Multimedia, 2005) sulla storia della canzone L’Internazionale, la sua leggenda, il suo successo, le sue versioni, Antonio Carioti dedica un intero articolo a un episodio che viene ricostruito appunto da Bermani stesso, la vicenda dei versi scritti da Franco Fortini e donati a Lotta Continua (Fortini e L’Internazionale tradita, Il Corriere della sera, 25 maggio 2005). Un episodio che è quasi un incidente e che ha un valore emblematico che vale la pena sottolineare.
Fortini scrive la “sua” versione dell’inno pensando appunto che la carica evocativa che esso possiede si adatti a una trasposizione moderna e che essa debba avere come referente la sinistra sessantottina. Non a caso: la versione originaria francese, il testo di Eugène Pottier, inizia con una formula di straordinaria suggestione che si è persa in quella italiana: essa prende il suo avvio col famoso noi siamo “les damnés de la terre” che invece, come è noto, nella traduzione italiana – di Spartacus Picenus del 1901 – diviene “Compagni, avanti il gran partito – noi siamo dei lavoratori”. Si tratta di una differenza che investe i due livelli dell’immaginario, l’anima riformista-legalitaria-di massa del movimento socialista e l’anima egualitaria-radicale-romantica (dove vale di più essere gli “ultimi”, i paria, ma anche i refrattari e i ribelli). Il gran partito dei lavoratori, il movimento operaio, ha dentro di sé fin dalle origini questa ambivalenza. Fortini intende richiamarsi appunto ai ‘dannati della terra’ e per questo pensa a Lotta continua, all’organizzazione forse più famosa e significativa della nuova sinistra italiana degli anni settanta.
Il testo di Fortini contiene dei passaggi di struggente bellezza ed evocazione, pur nel limite obbligato di una traduzione da testo per canzone.

 

Noi siamo gli ultimi del mondo
ma questo mondo non ci avrà
Noi lo distruggeremo a fondo
Spezzeremo la società.

Noi non vogliamo sperar niente
Il nostro sogno è la realtà.
Da continente a continente
questa terra ci basterà.

Classi e secoli ci hanno straziato
fra chi sfruttava e chi servì.
Compagno, esci dal passato
Verso il compagno che ne uscì.

 

Il testo risale al 1971, viene consegnato dattiloscritto su un fogliettino rosa a Luigi Manconi, dirigente di Lotta Continua (Manconi dichiara di non ricordare se a consegnarglielo sia stato Goffredo Fofi, aggiungendo che potrebbe essergli pervenuto anche da Piergiorgio Bellocchio o da Giovanni Raboni). E qui avviene – cosa del resto non rara nella storia della canzone politica, basti pensare a come L’Internazionale stessa abbia avuto una molteplicità di revisioni, ad esempio i ‘viva Lenin’ e i ‘viva Stalin’ della versione ufficialmente adottata dai militanti comunisti – una riscrittura e riformulazione ad opera dello stesso Manconi, che pensa sia del tutto normale riadattare i versi a uso e consumo del militante lottacontinuista.
Ecco la versione manconiana che è quella che si impone:

 

Contro il riformismo che contratta
ma che il potere non ci dà
noi siamo la classe che avanza
che il comunismo costruirà

Noi siam la classe di chi crede
che la vera libertà
la si conquista col fucile
chi scende a patti la perderà

Senza patria, senza leggi e nome
da Battipaglia a Dusseldorf
siamo la tendenza generale
siamo la rivoluzione

 

Non si tratta solo di un giudizio estetico per cui i versi del “poeta laureato”, per dirla con Montale, Franco Fortini sono migliori di quelli del sociologo Luigi Manconi, né di una scortesia e di una scorrettezza, che magari il militante tradizionale accetta in nome del “partito”. Colpisce la disinvoltura quasi goliardica e insieme burocratica di un’operazione che rivela come, in nome dell’autoproclamarsi “tendenza generale”, si può sempre sopprimere il particolare. E colpisce infine il gergo e l’ideologia politichese del verso che torna a essere slogan e che rivela di colpo tutta la retorica del rivoluzionarismo gratuito: dalla polemica antiriformista in nome del “potere”, residuo leninista classico (ma i sessantottini volevano il potere?), all’uso vietnamese del richiamo liturgico alla canna del fucile come libertà “sostanziale” o vera. L’inno di Lotta continua, come qualcuno ricorda, inneggia a sua volta alla ‘lotta di lunga durata’ – maoista, ma in termini tali che può andare bene a chiunque- precisando subito che però essa è “lotta di popolo armata”. E’ la medietà politico-ideologica dell’immaginario della rivoluzione: piazza, popolo, scontro, armi, presa del potere.

L’episodio è dunque doppiamente rivelatore del cattivo rapporto fra intellettuale sessantottino militante di partito e intellettuale specialistico indipendente, della ritualità gergale del sinistrismo messo in versi: nonostante i tratti corrosivi iniziali del suo organo di stampa, che vide impegnati in difesa della libertà di stampa come direttori responsabili i vari Pasolini e Mughini, lo stile lottacontinuista è un impasto di populismo e di effervescenze creative e già negli anni 1971-72 è largamente partiticizzato, anche se poi la sua area culturale è ben più composita e il Manconi che scrive e collabora con i Quaderni Piacentini, come Fortini, dimostra la sua stessa finezza.
Ma può essere significativo, proprio a proposito dello spostamento linguistico=espressivo, leggere il documento (scritto da Manconi) sugli stessi Quaderni Piacentini, in cui si esplicitano posizioni “violente” molto vicine all’ideologia della lotta armata. C’è insomma il permanere irrisolto di una doppiezza che rinvia per la sua interpretazione possibile al difficile equilibrio tra cultura di movimento e presenza dei luoghi ideologici della tradizione comunista.

Può essere di aiuto per questo lavoro di decodificazione della memoria storica un altro scritto recente su quegli anni e su Lotta continua, un tentativo di interpretazione fornito di recente da Adriano Sofri in occasione del dibattito sul significato del nuovo delitto di uno dei protagonisti dei fatti del Circeo.
Pierluigi Battista ha scritto sul Corriere della sera degli articoli sulla morte di Pasolini e, prima ancora sull’interpretazione discordante che lo scrittore diede in risposta a Italo Calvino (ripreso a sua volta da Sergio Luzzatto) a proposito del nesso tra sottoproletariato, violenza, fascismo. Sono, come è noto, quegli “scritti corsari” in cui Pasolini illustrava la tesi dell’omologazione culturale di comportamenti fra giovani di destra e giovani di sinistra. Sofri ha voluto ricordare lo shock culturale rappresentato dalla morte di Pasolini per la sua area politica, che pure per il delitto del Circeo aveva “messo insieme i pezzi”: crimine insieme classista, fascista e sessista. Sofri rievoca l’episodio della morte di Pasolini come ‘una crepa’ che rivela di colpo il limite di quella cultura politica, Battista fa notare sulla trasmissione televisiva Effetto reale di La7 che era il 1975 e quello era un anno “rigoglioso” per la nuova sinistra, la cui crisi si sarebbe rivelata più tardi, nel 1978, all’epoca del delitto Moro.
Sulla rubrica quotidiana Piccola posta, con cui quotidianamente, col giornale Il Foglio, Sofri va scrivendo le sue “lettere dal carcere”, di nuovo sposta il caso della datazione. «Non è così, tanto è vero che al tempo del sequestro e assassinio di Moro, Lotta Continua era sciolta da un anno e mezzo, e ne restava solo un piccolo giornale battagliero ed eclettico, pressoché una palestra dei lettori» (Piccola posta, Il Foglio, mercoledì 11 maggio) E ricorda come sino a poco tempo prima a Pasolini i lottacontinuisti rimproverassero una sorta di disfattismo morale, “una sfiducia nell’alternativa costituita dalla concezione del mondo della classe proletaria in lotta”. Accadde invece qualcosa: “Con l’omicidio di Pasolini andava in pezzi lo slogan della Roma di piazza Euclide contro la Roma delle borgate proletarie, non perché sparissero le distinzioni ma perché una malattia più forte delle frontiere ideologiche e politiche attraversava il corpo della società”. Si trattò dunque di un “vero trauma”, anche se in qualche modo si cercò di esorcizzarlo “con la restaurazione di un linguaggio ortodosso, come succede quando le cose vacillano”. E ricorda come poco dopo si verificò l’episodio dell’aggressione da parte del servizio d’ordine di Lotta Continua al corteo femminista del 6 dicembre, vero e proprio episodio-chiave. “Che la nostra coscienza… si mostrasse così povera e meschina e interdetta di fronte alla contraddizione di genere di cui pure appena poco fa avevamo fatto una bandiera distintiva, fu un’amarissima lezione. Pensavamo che il viaggio comune ci rendesse più intelligenti e ci scoprimmo scemi… La ribellione femminista… esplose e travolse la neutralità, cioè il maschilismo, di Lotta Continua. Noi ci sciogliemmo allora, benché trascinassimo i cocci della nostra impresa comune e della nostra responsabilità, da separati in casa, fino al novembre successivo, quando tenemmo il congresso di Rimini. Così andarono le cose”.

Si tratta con ogni probabilità di una ammissione personale, non di qualcosa che avvenne all’interno del gruppo dirigente, di un “trauma” che andò covando i suoi effetti. Questo tipo di retrodatazione sull’inizio della crisi, si può legittimamente obiettare, indica un percorso della soggettività che non si esprime tutto di un colpo e che al limite risulta chiaro solo dopo, “col senno di poi”. E pertanto può non valere come indicatore rispetto a una datazione vera e propria o essere un trucco della memoria, un alibi. Ma non credo che a questo punto il problema vero sia quello di individuare con esattezza la data, il giorno e l’ora, dell’inizio della crisi. Va accolto il significato interpretativo: chi ricorda che al congresso di Rimini del famoso scioglimento di Lotta Continua, Sofri si presentasse tenendo in mano un libro molto significativo L’io diviso di Laing, può concordare insomma con questo scavo della memoria alla ricerca delle piste. Sicché quel “noi ci sciogliemmo allora” indica una simbolizzazione e rivela un evento come motore di altri effetti.
In che misura questa forma di semi-confessione di un trauma aiuta una ricostruzione storica documentandola o rievocandola nei suoi tratti sotterranei? Essa concorre in modo personale, ma non per questo meno valido, a sottolineare come quel processo esploso grosso modo col 1977 in occasione del “nuovo movimento” (che si opponeva ai gruppi e partitini della nuova sinistra con creatività ma non si opponeva con analoga chiarezza alla presenza delle correnti “armate”) e messo a nudo dalla crisi ideale e di prospettive emersa col delitto Moro (ideale perché attorno al problema di come giudicare davvero “i compagni che sbagliano” si rivelava il problema di fare i conti davvero con “l’album di famiglia” del mito del comunismo rivoluzionario; di prospettive perché la mera indicazione “né con lo Stato né con le Br” non offriva indicazione di uno spazio politico praticabile e rivelava di nuovo la portata del problema) abbia avuto i suoi antecedenti, i suoi segnali di scricchiolio e premonitori, i suoi traumi non detti ma non per questo meno generazionali. Del resto proprio la crisi-scioglimento di Lotta continua, l’aprirsi di quella straordinaria tribuna delle “lettere a Lotta continua”, a metà strada fra gruppo di autocoscienza, ricerca autocritica, deprecazione e insulto, cultura del “parlarsi addosso”, vanno letti e rivisti ancora oggi come uno degli eventi chiave della crisi-trasformazione di una cultura politica .

E’ perfino ovvio che la storia politica e culturale della « nuova sinistra » non si identifica e non si risolve in quella di Lotta Continua e che lo stesso nodo della continuità e discontinuità della sua azione, delle radici della sua cultura, degli spostamenti della stessa nel corso degli anni ottanta in rapporto ad altre istanze (l’ecologismo e il movimento dei verdi, il femminismo e la cultura della differenza, il pacifismo e la disobbedienza civile, la crisi della centralità operaia e la “terziarizzazione”), obbliga a distinguere fra una prima periodizzazione (anni sessanta-ciclo ‘68-‘77, anni ottanta con le nuove “rivoluzioni” dell’Est fino alla caduta del muro di Berlino) e le nuove ondate, dal movimento della “Pantera” fino ai no-global.
Anche per la nuova sinistra italiana, che ha avuto, rispetto ad altri paesi, un peso caratteristico e un rapporto con il comunismo e il post-comunismo più marcato che altrove, manca ancora un tipo di studio e di bilancio inerente gli ultimi venti anni e tale da consentire di cogliere vecchie e nuove continuità. Rimane il fatto che uno dei punti chiave di nuove ricerche non può non riguardare la storia di Lotta Continua. Qui mi limito ancora solo ad accennare a un paragone, che di per sé rischia di essere financo deviante se non chiarito nelle differenze: quello con la storia e il gruppo dirigente del Partito d’Azione nel dopoguerra, un partito che nella storia d’Italia repubblicana sembrerebbe aver contato poco data la sua breve vita e che invece presenta (per la sua cultura politica liberalsocialista, per le vicende diverse dei suoi esponenti più significativi da Lombardi, a La Malfa, a Foa, a Valiani, per le influenze esercitate sulla sinistra nel suo insieme) un’importanza di fondo per l’insieme degli sviluppi della sinistra italiana.
Allo stesso modo credo sia possibile vedere nel poi, nel post-Lotta continua, la storia di una trasformazione e di una ricerca ancora in corso e che ha conosciuto esiti diversi, da quella di Sofri iniziata col quotidiano Reporter e proseguita con le vicende iugoslave, a quella di un Marco Revelli con la sua critica del novecento e il suo rapporto con Bertinotti, da quella del filone spontaneista-armato di “Prima Linea” a quella di uno scrittore affermato come De Luca o di un disegnatore come Vincino a quello di alcune note femministe a coloro che si sono avvicinati a loro volta a Forza Italia: storie così diverse che non hanno oggi molto da spartire, così almeno può sembrare a prima vista, salvo il fatto di un imprinting, di una eredità e di un marchio, d’essere un «ex-lotta continua», una specie di segnale di riconoscimento analogo, mutatis mutandis, a quello degli «ex-azionisti». Come è noto ci sono perfino coloro che ancora oggi parlano di Lotta Continua come di una lobby, sempre attiva e intercomunicante come gruppo di pressione, ma è appunto la classica interpretazione malevola e antipatizzante (anche qui paragonabile al pregiudizio verso gli “ex-azionisti” a lungo filtrato nel resto della sinistra). E’ un tema che va affrontato certo non solo dal punto di vista del successo o meno di vari intellettuali e del loro essere “al potere”, ma semmai da quello delle continuità e discontinuità di una cultura politica, quella che un film famoso ha esemplificato con l’immagine (facile e non persuasiva, schematica e non in grado di riconoscere le molte tappe) della “meglio gioventù”.

(29 aprile 2014)

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