Europa matrigna di Cesare Molinari

 

La riunione dell’Eurogruppo, iniziata (ovviamente in videoconferenza) nel pomeriggio del 7 aprile, si è conclusa, dopo quasi tre giorni di aspro dibattito nel tardo pomeriggio di giovedì 9 aprile. Ma la decisione definitiva sarà presa soltanto il 23 dal Consiglio.

L’Eurogruppo che dovrebbe riunire i ministri economici e finanziari della zona Euro, ma che, nell’occasione, era stato allargato agli altri paesi dell’Unione, era stato convocato dal Consiglio d’Europa, vale a dire dall’organismo che detta e promuove le iniziative politiche di ordine più generale, con il compito di elaborare proposte atte a fronteggiare il dilagare del contagio in Europa (dove il coronavirus è sbarcato negli ultimi giorni di gennaio), e di elaborare strumenti finanziari atti a contenere gli effetti della crisi economica che, prevedibilmente, investirà i paesi dell’Unione. E in particolare quelli più indebitati, come l’Italia.

Per reperire il denaro necessario, si sono fronteggiate diverse proposte: l’emissione, proposta dal presidente del consiglio italiano, di euro-bond, ossia di obbligazioni garantite solidarmente dai paesi dell’eurozona, che, proprio per questo, avrebbero il vantaggio di venir facilmente sottoscritti dal mercato; il Recovery Fund, proposto dalla Francia e caratterizzato da un preciso limite di durata, per quanto riguarda sia i tempi di emissione sia i termini di riscatto; e, infine, il ricorso al Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) sostenuto dai paesi rigoristi in quanto, anche nella versione più ‘leggera’, prevede un rigoroso controllo sulla situazione debitoria dei paesi beneficiari. Comunque i paesi meridionali hanno finito per cedere, anche di fronte alla promessa di uno stanziamento monstre di ben mille miliardi di euro, che però, paradossalmente, andrebbero spesi soltanto per fronteggiare il contagio e non le sue conseguenze sull’economia – ma si sa che i capitoli di spesa hanno confini piuttosto elastici.

Non si è trattato, naturalmente, di questioni puramente tecnico-finanziarie: la Germania, ancora ossessionata, a un secolo di distanza, dal ricordo della grande inflazione del 1923-24, dopo aver rinunciato al Deutsche Mark quale moneta di riferimento europea, pretende ora che il valore dell’euro rimanga commisurato alla buona salute della sua propria economia – in verità un poco traballante fin da prima dello scoppio della pandemia. Alla Germania si sono accodati tutti, o quasi tutti, i paesi del nord-est, quelli cioè che, per caso o per virtù, hanno i conti in ordine e che, per simbolica coincidenza, sono stati, finora, meno colpiti dal contagio, tanto che la Svezia, per esempio, non ha ritenuto opportuno imporre subito ai suoi cittadini quelle limitazioni della libertà di movimento ritenute necessarie per limitare la diffusione del virus (ma ora sembra essersi accorta di aver commesso un grave errore).

Ma il ruolo di punta di diamante dello schieramento rigorista è stato recentemente assunto dall’Olanda, secondo molti osservatori mandata in avanscoperta dalla Germania stessa. E questo nonostante che l’Olanda sia retta da un governo nazionalista, molto vicino alla Lega italiana, governo che non dovrebbe essere molto gradito ai socialdemocratici tedeschi, molti dei quali, in effetti, hanno preso le distanze in termini anche fortemente polemici. In Olanda si contano più di ventimila casi di contagio: non moltissimi in termini assoluti, ma molti in rapporto al numero degli abitanti: dieci milioni (in effetti c’è l’abitudine di dare soltanto il numero assoluto dei contagiati, mentre quella che dovrebbe essere più indicativa è la percentuale). Ma di questo il governo olandese non pare interessarsi gran che: “erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral” diceva Brecht: “prima viene la pappa, dopo la morale”,

 

ma, data la situazione, si potrebbe meglio tradurre “prima vengono gli affari, dopo viene la salute”. E in nome degli affari l’Olanda si è costituita come un vero e proprio paradiso fiscale (così la ha definita Romano Prodi): le isole Cayman nel cuore dell’Europa, attirando in tal modo importantissime imprese, come la FCA (ex-Fiat, quindi ex-italiana). La contraddizione fra rigorismo finanziario e liberalità fiscale, che si risolve in concorrenza sleale, dovrebbe essere evidente per tutti. Ma non sembra esserlo.

Perché tale contrasto fra rigoristi e bisognosi, che corrisponde quasi esattamente a quello fra il nord e il sud dell’Europa, quasi riproducendo quello fra il nord e il sud del mondo, comporta un rischio ben più grande, rilevato e messo in evidenza in primo luogo dai politici più responsabili, come la stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, ultimamente, in una bellissima intervista, dall’ex-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Gerhard Schröder, ma poi anche da molti giornalisti e osservatori: il rischio cioè della dissoluzione della stessa Unione Europea, che è stata il più importante esperimento politico degli ultimi cento anni – e noi italiani dovremmo essere orgogliosi del fatto che a elaborarlo per primi siano stati tre italiani, all’epoca confinati nell’isoletta di Ventotene, Ernesto Rossi, Eugenio

Colorni ed Altiero Spinelli.
 Un rischio che è stato accolto con malcelata soddisfazione dai così detti euro-scettici, in verità neo-nazionalisti, come, in primo luogo, la Lega di Matteo Salvini. Ma un rischio che potrebbe risolversi in una grande occasione, perché, come è detto nella lettera firmata da trenta importanti intellettuali, mette “l’Europa di fronte a un’opportunità straordinaria: decidere di avanzare verso un’unità più profonda o imboccare un declino irreversibile”.

Che l’Unione debba essere riformata è evidente a tutti: anzi, è inscritto nella sua stessa storia, poiché essa è nata come semplice comunità economica – priva del resto, come dimostra il caso olandese, perfino di una comune normativa fiscale. Ma, chiaramente, neppure una vera comunità economica può esistere senza un fondamento politico, ciò che ha portato allo sviluppo di tutte quelle strutture e quegli organismi che sono necessari al funzionamento di uno stato democratico – e dunque ministeri, governo e parlamento, con tutte le complicazioni dovute alla necessità di mantenere e riflettere i rapporti non solo fra gli schieramenti politici, ma anche fra le rappresentanze degli stati membri: tanto per fare un esempio, in uno stato nato federale come gli USA, mentre il Congresso viene eletto per collegi, con il sistema maggioritario semplice della tradizione anglosassone, il Senato comporta rappresentanze paritetiche per i singoli stati.

Allora, in quali termini andrebbe impostata tale riforma? Tutto sommato, la struttura politica dell’Unione non è più complicata di quella di un singolo stato. In certi casi lo è anzi anche meno: per esempio una sola Camera invece di due, come in Italia e negli Stati Uniti. Caso mai, una complicazione va individuata nelle moltissime Agenzie (operative o di consulenza), ciascuna con compiti e funzioni non particolarmente ben definiti.

Non dovrebbe allora trattarsi di una semplice riforma di carattere organizzativo, capace di rendere più efficienti e funzionali gli organismi di governo e di gestione, ma di una riforma in grado di portare alla costruzione di un vero super-stato federale che, mantenendo le autonomie dei singoli stati confederati, riassumesse in sé le funzioni, i principi e i valori di una grande democrazia. Con l’eccezione dell’Inghilterra, che del resto, paradossalmente, è una sorta di regno federale (United Kingdom), tutte le democrazie, se non addirittura tutti gli stati democratici, hanno avuto bisogno di una costituzione: l’Inghilterra se la è potuta risparmiare in qualche modo fingendo che essa sia reperibile nella Magna Charta Libertatum, che però risale, se non ricordo male, al 1240, per concretizzarsi nella Common Law, che rende particolarmente complicato, e lucroso, il mestiere di avvocato.

In verità c’è stato, come molti possono ricordare, un tentativo di dare all’Unione una costituzione, ma il relativo testo fu bocciato dai referendum popolari tenutisi in Francia e (et pour cause) in Olanda. Ma bisogna dire che, in questo caso, la bocciatura fu più che giustificata in quanto, la così detta ‘costituzione’ proposta consisteva piuttosto in un grosso ‘trattato’, nel duplice senso di ‘accordo’ e di ‘dissertazione’, che certamente non era stato letto da più dell’uno per cento dei votanti. Mentre una vera costituzione avrebbe dovuto essere modellata sulle tracce di quella italiana, esemplare per struttura e chiarezza.

Una tale costituzione dovrebbe comprendere anzitutto i principi fondativi, in verità presenti già nel trattato di Lisbona, dove però sono esposti in maniera disorganica e quasi casual; ma poi anche le sanzioni da comminare a quanti (individui, ma soprattutto stati) violano tali principi sul piano politico come su quello economico. In verità, il rispetto di tali principi avrebbe dovuto essere verificato in maniera più stringente al momento dell’ammissione di nuovi membri. Ma mentre le verifiche di carattere economico sono state particolarmente rigorose (per esempio proprio nei confronti dell’Italia. quando si trattò di ammettere il nostro paese nell’euro), quelle di carattere politico sono state spesso piuttosto approssimative: l’unico caso di respingimento – peraltro mai ufficialmente dichiarato – è stato quello preso, di fatto, nei confronti della Turchia. Mentre paesi come la Polonia, la Cechia e l’Ungheria sono stati ammessi senza guardare troppo per il sottile (forse proprio in quanto si trattava di paesi ex-comunisti). E forse fu galeotto anche il desiderio di Romano Prodi di identificare i confini politici dell’Unione con quelli geografici del continente.

Sta di fatto che adesso, mentre è stata aperta una procedura di infrazione nei confronti dell’Ungheria, il cui governo si è reso reo di gravissime infrazioni nei confronti delle libertà politiche e dei diritti umani, lo stesso non è stato fatto per governi poco meno illiberali, come quello della Polonia. E certamente nulla verrà fatto nei confronti del governo olandese, reo di un delitto che, sul piano economico, non è meno grave di quello di cui, sul piano politico, si è reso responsabile il governo di Orbàn.

Mi piacerebbe sapere cosa pensi di tutto ciò Emma Bonino, la quale, con la sua “Più Europa” non sembra, in questo frangente, aver battuto un colpo. Comunque, tutto questo dimostra che, se non verrà colta l’occasione di rifondare l’Unione, rendendola una vera unione politica oltre che economica, anche l’Unione economica è destinata ad andare in frantumi e i nostri singoli staterelli dovranno ricominciare a confrontarsi singolarmente con le grandi potenze che hanno tutto l’interesse a distruggere l’Unione economica: gli Stati Uniti e la Russia. Mentre forse, chissà, la nuova Unione Europea potrebbe trovare un grande e potente alleato nella Cina: un’alleanza di cui la nuova via della seta potrebbe costituire il primo tassello.

(pubblicato sul sito: www.cesare23.it)

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