La vendita delle armi: crimine contro l’umanità? di Roberto Fieschi

 

L’Italia è fra i primi dieci paesi al mondo per export di armi. I paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente con oltre 8,6 miliardi euro ricoprono quasi il 60% delle autorizzazioni: un’area fra quelle di maggior tensione del pianeta: Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Pakistan, Angola, Emirati Arabi Uniti; ricordiamo i caccia Eurofighter della Leonardo per il Kuwait, oltre 7 miliardi.

Purtroppo non sono notizie che scuotono l’opinione pubblica.

Spesso si tratta di zone governate da regimi autoritari e da monarchie assolute irrispettose dei più basilari diritti umani. Fornire armi e sistemi militari a questi regimi, oltre a contribuire ad alimentare le tensioni, rappresenta un tacito consenso alle loro politiche repressive.

Il SIPRI, l’istituto internazionale impegnato in ricerche su conflitti, armamenti e disarmo stima che la spesa militare mondiale del 2015 sia stata 1.676 miliardi di dollari, equivalente al 2,3 per cento del PIL mondiale o a 228 dollari per persona.

Bisogna anche tenere conto del mercato nero che sfugge alle statistiche ma è florido; tre conflitti in particolare – nell’ex Jugoslavia,  in Afghanistan e in Iraq, e la dissoluzione della Libia – hanno contribuito alla diffusione fuori controllo.

Qualche altro dato: sono state disseminate in molti Paesi circa 100 milioni di mine anti-uomo e ogni anno ne vengono introdotte almeno altre 500000; ogni anno dalle esplosioni vengono mutilate o uccise circa 15000 persone, spesso bambini.

Il 2013 ha visto alcuni progressi negli sforzi mondiali per il rafforzamento dei controlli sul commercio di armamenti convenzionali; a luglio l’Assemblea Generale dell’ONU ha raggiunto un accordo sul testo del Trattato sul commercio di armi (Arms Trade Treaty, ATT), dopo sei anni di negoziati!  I risultati tuttavia non sono molto incoraggianti.

Molte sono le cause delle guerre che insanguinano il mondo, ma è certo che i produttori e i commercianti di armi in molti casi contribuiscono ad alimentare conflitti interni e guerre tra gli Stati. Sicuramente è loro interesse che il mercato si espanda e che vi siano soggetti disposti a impiegare somme ingenti per l’acquisto di ordigni di morte.

 

Questo è avvenuto anche in tempi lontani.

Nel 1733 il finanziere Amschel Mayer Bauer Rothschild (capostipite dell’impero Rothschild) dichiarò: “La nostra politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo conferenze di pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto possa ottenere guadagni territoriali. Le guerre devono essere dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre più nel loro debito e, quindi, sempre più sotto il nostro potere”.

Molti anni fa ho letto una biografia di Basil Zaharoff, greco, mercante di armi, uno degli uomini più ricchi del suo tempo e uno dei massimi mercanti di morte.

Alla fine dell’Ottocento Zaharoff  riuscì a vendere alla Grecia uno dei primi sottomarini, Nordenfelt I, a propulsione a vapore, destinato a non funzionare. Quindi convinse i turchi che ciò poneva una minaccia, e ne vendette loro due, uno dei quali ben presto affondò; infine persuase la Russia ad acquistarne due, per contrastare la minaccia turca nel Mar Nero. Anche nei decenni seguenti Zaharoff fu un maestro nel creare la domanda per la sua mercanzia, ogni tipo di armamenti; lo faceva vendendo indifferentemente alla parti in contrasto o addirittura fomentando

Non era l’unico a impiegare metodi del genere per vendere armi e arricchirsi, solo uno dei più abili (https://mises.org/library/merchant-death-basil-zaharoff).

La giustificazione tipica dei mercanti di morte è sempre stata la difesa del Paese. Ma i produttori e i mercanti di morte spesso forniscono armi sia al proprio paese, sia a paesi potenzialmente avversari. Dei 25000 cannoni prodotti dai Krupp prima del 1890 solo 10000 furono destinati alle forze armate germaniche; il resto a Paesi che, come l’Austria e la Cina, in seguito li impiegarono contro la Germania stessa; nella guerra boera (Sudafrica, 1898-1902) i soldati inglesi furono massacrati dalle mitragliatrici Maxim che Zaharoff, per conto della britannica Vickers, aveva fornito ai Boeri; la Turchia, nella guerra contro l’Italia (1911), impiegò una flotta largamente fornita dall’Italia stessa.

Non dobbiamo quindi stupirci se oggi in Siria i mercanti di morte armano più o meno direttamente tutte le parti in lotta, fino ai gruppi terroristici dell’Isis, contribuendo ai massacri di militari e civili.

Lucidamente il Papa ha detto: “Questa guerra in Siria è davvero una guerra per risolvere problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi, cioè per incrementarne il commercio illegale? Diciamo No al commercio e alla proliferazione delle armi.”.

 

Di fronte alla diffusione e all’imponenza del fenomeno, si resta sconcertati. Una delle difficoltà ad affrontarlo sta nella scarsa consapevolezza nella popolazione e negli stessi attori, a tutti i livelli. Un’organizzazione burocratica quasi perfetta fa sì che quasi nessuno degli attori si renda conto delle sue indirette, maggiori o minori, responsabilità di fronte a un fenomeno che contribuisce a provocare distruzioni e lutti immensi. L’operaio che tiene in ordine gli impianti non può sentirsi responsabile, e così pure il tecnico specializzato o il capo reparto: esaudiscono il compito al quale sono assegnati e portano onestamente a casa il salario; il progettista di nuovi sistemi di arma è orgoglioso dei miglioramenti che sviluppa; il responsabile dell’azienda e quello delle vendite devono far quadrare i bilanci, pena il fallimento dell’azienda stessa; il ministro degli esteri deve tener conto degli interessi del Paese nei rapporti con gli altri stati; il ministro del commercio deve incrementare le esportazioni; il ministro della difesa sa che se le fabbriche d’armi del Paese producessero solo per la difesa, non sarebbero in grado di autosostenersi. Un esempio recente: il sindaco di Cadice in campagna elettorale criticava l’industria degli armamenti; dopo la sua elezione benedice il contratto dei cantieri navali Navantia per la costruzione di cinque fregate destinate all’Arabia Saudita; i posti di lavoro innanzi tutto, si giustifica il sindaco.

Ogni attore è una rotellina di un ingranaggio perfetto, che lo esonera dalla visione dell’insieme; è semplicemente una persona completamente calata nella realtà che ha davanti: lavorare, eseguire il proprio compito, cercare una promozione, riordinare numeri nelle statistiche, eccetera. Nella catena di passi che portano alla produzione e al commercio delle armi sono assenti le emozioni umane, incluso l’odio. La divisione del lavoro crea una distanza tra chi contribuisce al risultato finale e il risultato stesso.

Così la violenza è stata sottratta alla nostra vista, ma non eliminata.

Con questa schematizzazione non si vuole negare che consapevolezza e responsabilità siano del tutto assenti; in qualche misura esistono, salendo dai livelli esecutivi più semplici verso i livelli dirigenziali. In ogni caso non si può accettare che inconsapevolezza equivalga ad assenza della responsabilità individuale.

 

“La banalità del male”: in un altro ben noto contesto, così  Hannah Arendt definì l’inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Dal dibattimento in aula al processo , infatti, la Arendt ricavò l’idea che il male perpetrato da Adolf Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah – fosse dovuto non ad un’indole maligna, quanto appunto a inconsapevolezza; non all’odio, ma alla incapacità di critica.

La società tedesca degli anni 1933 -1945 non conteneva elementi in grado di impedire il verificarsi dell’Olocausto, una grande impresa, un genocidio freddo, accurato e sistematico pianificato razionalmente (*) e gestito efficientemente tramite una burocrazia obbediente all’autorità (Z. Bauman: Modernità e Olocausto). Analogamente nessuna delle società attuali ha in sé gli strumenti per uscire da una situazione – la produzione e il commercio della armi –  che è indirettamente causa di lutti immensi; troppo forte è la cooperazione di vasti settori del Complesso militare industriale  (D. Eisenhower, 1961) e della politica, troppo alta l’efficienza della tecnica e della burocrazia, troppo ampia l’acquiescenza dell’opinione pubblica. Né ci si può aspettare una riflessione autocritica degli attori ai vari livelli: è psicologicamente facile ignorare la propria responsabilità quando si è semplicemente un anello intermedio nella catena di un’azione immorale e si è lontani dagli esiti finali dell’azione stessa.

L’azione di denuncia appassionata – pur importante – di persone e di gruppi concerned non è sufficiente a incidere sui meccanismi perfettamente legali che la sostengono.

 

(*) Il 20 gennaio 1942 si tenne a Berlino la cosiddetta Conferenza di Wannsee; presieduta da Heydrich, generale delle SS: in essa si esaminarono a fondo i dettagli burocratico-amministrativi del progetto di “soluzione finale della questione ebraica” (Endlösung der Judenfrage).

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